Al capezzale dell’editoria italiana: diagnosi e rimedi

Conversazione con Amleto de Silva

Amleto de Silva non ha certo bisogno di presentazioni: brillante e maturo enfant terrible del panorama autoriale nazionale ma, soprattutto, romanziere, notista, saggista e formatore di classe, di quelli che ancora mettono al primo posto l’etica dello scrittore e non ne sono rimasti molti.

La sua interlocuzione con il suo pubblico passa ormai già da diversi anni per una coinvolgente quanto a tratti cruda azione divulgativa dell’attuale stato dell’arte del mondo editoriale, di come poter in qualche modo conviverci facendo i conti con la sua crisi, senza con questo arrendervisi, anzi contrastandola e controbilanciandola fin dove possibile.

E noi proprio di questo siamo andati a chiedergli, perché sappiamo che gli fa sempre piacere parlarne, così come a noi ascoltarlo e leggerlo.

Grazie Amleto, di aver accettato il nostro invito a questa chiacchierata e passiamo subito alla prima, ansiosa domanda: come sta il malato editoria italiana? C’è speranza di recupero?

Grazie a te, caro Carlo. E la risposta è no, che vuoi recuperare più. L’editoria come ci piaceva pensarla non esiste più da un bel pezzo: ora c’è un’altra cosa, che però non possiamo – in tutta franchezza – chiamare letteratura. Si stampano delle cose, più che altro. Parafrasando Gozzano, cose brutte di pessimo gusto. E poi, vedi, la speranza di recupero dovrebbe passare per i desideri di chi l’editoria l’ha portata a questo punto, quindi no, non ne usciamo. E se proprio vogliamo dirla tutta, a me l’editoria non interessa, a me interessa la letteratura, i libri, quelli che non vedi l’ora di tornare a casa per finirli. E di quelli ne ho un bel po’.

Per continuare in ambito metaforico medico-sanitario, dopo averti chiesto una diagnosi ti chiediamo delle profilassi. Che cosa fate e potete fare voi autori, cosa possiamo fare noi lettori per prevenire, conservare, proteggere?

Beh, noi autori, come termine, starebbe a significare che esiste una comunità di scrittori: a me non risulta, ma io sono uno abituato a far comunella su basi diverse, e ancora fatico a considerarmi uno scrittore. Mi manca il tono sussiegoso, la voce impostata, la manina sotto il mento nelle foto posate, la smania di piacere a tutti i costi. Per quanto riguarda i lettori, ti ricordo che Dylan Thomas chiamava i lettori comuni, cretini leggendari. È proprio per compiacere loro, questi babbei illetterati, che vengono fuori libri orribili, senza senso, queste acquette fresche leggermente macchiate di lime, perché il limone fa tanto banco dell’acqua e noi invece dobbiamo dare a vedere che siamo i tipi che hanno viaggiato.

Andando ora nello specifico: comportamenti da evitare e combattere. Che cosa proprio non ti va giù del mondo del libro di oggi?

Mi ripeto: i lettori. Perché se è vero che il gusto del pubblico è manovrato, è anche vero che non sei obbligato a ingoiare qualsiasi cosa ti venga proposta. Davvero, vedo gente comprare libri che solo pochi anni fa sarebbe stato reato anche solo pensarli, figuriamoci scriverli o pubblicarli.

 

Le segretarie che sospiravano coi libri di Liala stretti al seno almeno leggevano storie scritte molto bene: svenevoli, un po’ patetiche, ma ben scritte. Questi invece comprano e leggono delle cose che definire imbarazzanti è dire poco. E allora sai che ti dico? Che la colpa è loro.

 

Parliamo adesso espressamente di te e dei tuoi ultimi lavori, e facciamolo rispolverando un concetto vecchio ma sempre attuale: quello della missione dell’intellettuale. Come si esplica oggi la tua, attraverso quello che di volta in volta scrivi, pubblichi, recensisci, critichi, insegni? Come collochi nel tuo ruolo e nel tuo percorso le tue più recenti pubblicazioni, le tue scelte odierne in generale e in quale chiave vorresti le leggessimo noi tutti?

Al momento, la mia missione è riuscire a pagare le bollette, figuriamoci il ruolo dell’intellettuale. Certo, mentirei se ti dicessi che non mi considero tale, ma il mio concetto di intellettuale è che siccome sei stato tanto fortunato da non dover alzare la cardarella, almeno cerca di dire delle cose sensate. Di ragionare, di essere d’aiuto, di portare il pensiero libero nel mare del pensiero unico. Vedi, io non sono un tipo complicato, e nemmeno sono all’altezza della mia cattiva fama. Cerco di fare bene il mio lavoro, di scrivere dei bei libri, delle belle vignette, delle belle recensioni. E soprattutto, e di questo dovreste ringraziarmi, non scrivo brutte poesie. Io.

Per finire, la solita, irrinunciabile domanda: cosa ti piacerebbe ti riservasse e ci riservasse il futuro? Tu però, in linea con le tue energie, il tuo humour e la tua verve, dicci anche come farai e come possiamo fare per provare a dargli una bella spinta.

Il futuro. Mi affatica il solo pensiero, diceva Pazienza, uno che oggi non riuscirebbe a pubblicare neanche uno schizzo. Il futuro è una truffa, è un rimandare le poche cose belle che abbiamo per sguazzare in una pozza del nostro stesso piscio che chiamiamo presente.

Grazie Amleto, da parte di noi di Riscontri. È stato un vero piacere poter dialogare con te sui binari e sulle lunghezze d’onda non convenzionali che abbiamo imparato a riconoscere e apprezzare, e a te i nostri migliori auguri di buon lavoro.

Grazie a voi di Riscontri, e grazie a te, caro Carlo. Permettimi, in chiusura, di ricordarti che ove mai decidessi disfarti di quel meraviglioso cappottino in pelle rossa, ricordati degli amici.

(intervista a cura di Carlo Crescitelli)

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