Il Decamerone come documento della peste del 1348

di Guido Tossani

 

Nel 1348 Firenze fu colpita dalla peste. Boccaccio fu testimone diretto dello sconvolgimento della città, investita dalla furia dell’epidemia. L’introduzione del Decamerone, nella quale la peste viene copiosamente descritta nelle sue manifestazioni e nei suoi effetti, è una testimonianza diretta, frutto di un’esperienza personalmente vissuta, anche se priva di ricadute personali perché Boccaccio non fu colpito dalla peste negli affetti familiari. Forse proprio da questa immunità deriva l’impressione che Boccaccio ci comunica con la sua introduzione, ossia che egli non sia stato intimamente toccato dalla peste. Sembra, anzi, che la sua testimonianza abbia un carattere spassionato, oggettivo, tanto più minuziosa, esatta e completa in quanto resa da una posizione di non-coinvolgimento, di estraneità di fatto, di osservazione né appassionata né partecipata e, dunque, sostanzialmente letteraria. Le espressioni di dolore, numerose ed eloquenti, tutte incentrate sulla diffusione del morbo in Firenze e sulla degradazione fisica e morale ad esso conseguente, rimangono sul piano della funzionalità letteraria, nel senso che costituiscono una sorta di polo negativo dal quale trarrà risalto il polo positivo che seguirà nei racconti delle dieci giornate.

Boccaccio, in qualità di testimone oggettivo, compone un quadro della peste fiorentina del 1348 che assume un valore storico in quanto completo e descrittivamente esaustivo: nessun aspetto del rapporto della città con il morbo incontrollabile viene eluso o omesso.

L’articolo completo è disponibile sul numero 2 (2020) di “Riscontri”

 

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