Tre epoche lontane, tre civiltà apparentemente distanti, un solo filo conduttore: un misterioso monile d’avorio che attraversa i secoli e unisce l’antico Egitto, l’Impero Inca e l’epoca dei Conquistadores. In questa intervista, l’autore del romanzo Il monile d’avorio — edito da Armando Curcio — ci accompagna in un viaggio che fonde rigore storico, passione archeologica e immaginazione narrativa. Un dialogo serrato tra passato e presente, tra mito e ricerca, per interrogarsi su chi abbia davvero calcato per primo le terre del cosiddetto “nuovo mondo”.
- Il suo romanzo intreccia tre epoche e tre civiltà molto diverse tra loro. Come è nata l’idea di collegarle in un’unica storia?
Nel romanzo affronto tre epoche molto distanti, ma sono effettivamente molto diverse tra di loro? La risposta è: sì, sono molto diverse, ma solo apparentemente!
Perché dico questo? È vero che nel primo dei tre piani temporali ci troviamo a Tebe, capitale dell’Egitto nel lontanissimo 1480 a.C. anno della morte del Faraone Tuthmose II. È anche vero che faccio un salto temporale di tremila anni giungendo a Cuzco nell’anno 1513 d.C. dove regna l’imperatore Huayna Capac, dodicesimo Inca, profondamente turbato dal manifestarsi di minacciosi segni celesti, inoltre stanno giungendo sconosciute e sinistre “case galleggianti” dal grande mare con a bordo uomini barbuti vestiti d’argento e col potere di lunghe lance tuonanti. Qualche anno dopo, nel 1540 d.C, Pedro de Valdivia, uno degli ultimi Conquistadores spagnoli, sulla scia dei grandi tesori razziati da Hernàn Cortès in centro America e da Francisco Pizarro in Perù, sta esplorando il Cile alla ricerca della leggendaria Città d’oro.
E nel terzo piano temporale faccio un altro balzo in avanti di oltre 500 anni giungendo ai tempi nostri, dove l’archeologo romano Antonio Montero è convinto che la città ambita da Valdivia, non sia altro che la mitica Città d’oro dei Cesari, riconducibile al viaggio di Sebastiano Caboto in sud America. Montero vorrà accanto a sé due giovani archeologi, Demian e Soledad, in un avventuroso viaggio in Cile tra foreste inesplorate e antiche rovine, riscoprendo eventi accaduti secoli prima.
Il ritrovamento di un antico monile d’avorio con misteriose incisioni, li spingerà a porsi domande su chi posò per primo il piede nel nuovo mondo: Cristoforo Colombo o popolazioni molto più antiche? Quindi perché collegare l’antico Egitto con l’Impero Inca e i primi Conquistadores? È necessario a questo punto fare un breve excursus storico: è noto che già nel V secolo a.C. il cartaginese Annone aveva guidato una flotta nell’Atlantico meridionale. Gli stessi fenici avevano fondato varie città portuali lungo le coste atlantiche dell’Africa e anche Erodoto ci informa che i fenici erano abili marinai e già nel VII secolo a.C. avevano circumnavigato l’Africa per conto del faraone Neco II. Secondo Plinio ci era riuscito anche Eudosso di Cizico che avrebbe raggiunto Cadice, importante porto dell’attuale Andalusia, partendo dal mar Rosso. Verso la fine del IV secolo a.C. il greco Pitea di Massalia, l’attuale Marsiglia, solcò le acque dell’Oceano Atlantico del nord giungendo fino in Inghilterra, Danimarca e Finlandia.
D’altra parte i fenici, prima dei Greci furono per più di mille anni i padroni dei mari. Ma veniamo a noi, all’aspetto che più ci interessa e che dà vita al romanzo! Eratostene nel III secolo a.C. aveva ipotizzato un’eventuale rotta occidentale in un passo dei suoi “Geographica”. Seneca asseriva che se il vento fosse stato favorevole, una buona imbarcazione vi sarebbe potuta giungere in pochi giorni. Su rotte verso occidente ne parla Seneca il vecchio asserendo che oltre oceano vi fossero altri lidi, così Plutarco. Ma tra il dire e il fare, recita un vecchio detto, ci sta di mezzo il mare! Quindi? Nel cosiddetto “nuovo mondo” continuano a essere ritrovati reperti che riconducono alla vecchia Europa. Una delle tante è una testa di donna ritrovata nelle vicinanze di Città del Messico dagli archeologi della Roman History della Southerrn Methodist University dalle caratteristiche antropologiche simili a quelle delle matrone dell’antica Roma datata II secolo d.C. Vi cito solamente un altro esempio dei tanti che ho rinvenuto: il Professor Valentin Belfiglio, della Texas Woman’s University ritiene che la nave naufragata e venuta alla luce nell’agosto del 1886 nella spiaggia di Galveston Island in Texas, sia molto simile a quella che Giulio Cesare descrive nel libro III del “De bello gallico”. Notizia particolare, vi pare? I romani in America? E gli Egizi allora? Qui non voglio anticipare troppo, ma ci sono tanti altri aspetti molto interessanti che tratto che vi stupiranno e che possono collegare i due mondi. Alcuni brevi esempi: gli affreschi Maya del sito di Bonanpak nello stato messicano del Chiapas ai confini col Guatemala rivelano sorprendenti analogie con le tombe egizie, monili che indossavano sia i faraoni che i nobili Maya, pelli di giaguaro che indossavano sia i sacerdoti egizi che quelli Maya. Inoltre nel sito di Tzompantli si nota una struttura dalla forma identica all’Ankh la chiave egizia dell’eternità!
E l’argomento piramidi? Un’analogia disarmante! Non mi dilungo oltre, solamente a dimostrazione che nei tempi antichi, quando le principali vie di comunicazione erano ovviamente via mare, vi era un’enorme esperienza di navigazione. E se qualcuno fosse giunto anche dal vecchio continente oppure…dall’Egitto?
- Il sottotitolo La donna faraone e la profezia del dodicesimo Inca richiama due figure storiche importanti. Cosa li accomuna nella sua narrazione?
L’Inca Huayna Capac è stato il più importante sovrano dell’impero Inca che riunì sotto la sua egida un territorio che si estese dalla Colombia fino al Cile. Anche Hatshepsut, sovrana della XVIII dinastia, fu una regina di grande autorevolezza e la seconda, dopo Nefrusobek della XII dinastia che raggiunse il titolo di faraone. Grande sposa reale e regina consorte del faraone Tuthmose II si ritiene che fu uno dei migliori faraoni della storia egizia. Quindi due grandi sovrani, il primo guerrafondaio, caratteristica comune alla maggior parte dei sovrani Inca, invece Hatshepsut preferì rendere grande l’Egitto e se stessa attraverso le più fantasmagoriche costruzioni che la potessero ricordare ai posteri come una grande regina.
- Quale parte della ricerca storica è stata più affascinante da approfondire?
Sicuramente la ricerca attraverso la quale sono giunto (non solo io ma anche eminenti studiosi) all’affermazione che non fu Cristoforo Colombo il primo a mettere piede nel nuovo mondo, ma tante altre antiche popolazioni prima di lui i cui manufatti lo testimoniano. Potrei fare numerosi esempi, ma mi limito ai più eclatanti: l’acquedotto Inca di Rocadero in Perù, utilizza due ordini di arcate in pietra, spesso denominate ad archi veri, stile di architettura tipico dell’antico mondo Mediterraneo. Nella città Maya di Comalcalco sono stati utilizzati mattoni simili a quelli usati dai muratori romani del II secolo d.C. e le tubazioni in terracotta, uniche in tutta l’America centrale, sono identiche a quelle rinvenuti in Israele, occupato dagli stessi anni dai Romani. Inoltre in una piramide del II secolo a Calixtlahuaca in Messico si è trovata una raffigurazione in ceramica di un uomo barbuto dai lineamenti europei che presenta un taglio di capelli e un copricapo molto simile a quelli degli antichi Romani. Altre statue di uomini barbuti sono presenti anche in civiltà precolombiane, mentre sappiamo che le popolazioni del centro e sud America sono glabre. Infatti in Messico nelle rovine di La Venta si è rinvenuto un bassorilievo olmeco che rappresenta un uomo barbuto dall’aspetto caucasico con calzature e abbigliamento ravvicinabile a popolazione come i Fenici o gli Etruschi. Una stele Olmeca ritrovata nella zona di Alvarado e ora contenuta nel Museo di Antropologia di Città del Messico, presenta caratteristiche di genti del bacino mediterraneo, con folta barba, mentre su altre si notano caratteristiche somatiche negroidi. In una stele rinvenuta in Honduras nel sito di Copàn, il sovrano raffigurato porta un lungo pizzetto. In una statua del periodo medio preclassico dei Maya, che va dal 1000 al 400 a.C. viene raffigurato un personaggio con un cucciolo di giaguaro sulla spalla che richiama la fisionomia del mondo asiatico. Invece la statua olmeca denominata il lottatore, visualizza altri tratti più propriamente asiatici, con lunghi baffi e pizzetto che di certo non appartengono alle culture mesoamericane. E qui mi fermo, anche se le continue ricerche archeologiche, stanno riportando alla luce reperti dell’antica storia del continente
americano, confermando che non fu Cristoforo Colombo a “scoprire” l’America, ma popolazione molto più antiche.
- Hatshepsut è una delle prime donne a detenere il potere in Egitto. Quanto è stato difficile per lei affermarsi in un mondo dominato dagli uomini?
Hatshepsut, regina della XVIII dinastia egizia, affiancò il faraone Tuthmose II la cui scomparsa creerà una forte incognita per la successione al trono. Il futuro Tuthmose III ha solamente cinque anni. In questo frangente Hatshepsut, vedova del sovrano si farà spazio proclamandosi faraone e tutrice del piccolo Tuthmose in attesa della sua incoronazione ufficiale. Nel frattempo si appoggia a Senenmut divenendone l’amante, ingegnoso e potente architetto di corte, ma anche Ti-Aty (Visir), responsabile della duplice casa dell’oro, del giardino di Amon, dei trasporti fluviali e delle spedizioni commerciali, ministro della giustizia e dell’apparato burocratico, delle armate e delle imposte, sommo giudice con capacità decisionale sugli abusi di potere, organizzatore di censimenti, capo degli scribi, sacerdote della barca e intendente di Amon, tutore della figlia reale Neferura e responsabile delle greggi di Amon. Quindi un personaggio di indubbio potere, anzi, il più potente del regno che sostiene fedelmente la Regina sua amante per tutta la durata del suo regno. Ma Hatshepsut divenne una delle più importanti regine d’Egitto non solo grazie a questa alleanza d’amore-potere, ma anche per ciò che contraddistinse molte importanti donne del passato: l’astuzia.
Svela un evento che la fa diventare a pieno titolo non solo regina, ma anche divinità. Riporta di esserle apparso in sogno il dio Amon Ra, il dio nascosto, colui che creò il mondo, svelandole il suo passato: Amon Ra, notò dall’alto l’incredibile bellezza della madre Ahamose e volle discendere sulla terra assumendo la fisionomia del suo consorte, il faraone Tuthmose I per poterla possedere carnalmente facendo nascere Hatshepsut. Così la regina diventa la figlia del signore di tutti gli dei e lei stessa una divinità col potere di schiacciare sotto i suoi sandali i nove archi delle genti che saranno a lei sottomessi.
- Il popolo Inca credeva nei segni celesti. Ha tratto ispirazione da fonti storiche reali per descrivere la loro visione del destino?
Prendo spunto da una delle principali fonti storiche che raccontò gli eventi del popolo Inca, Garcilaso de la Vega (soprannominato el inca) uno dei primi “meticci” del nuovo mondo. Figlio del Conquistador spagnolo Sebastiàn Garcilaso de la Vega y Vargas e della principessa inca Chimpu Ocllo, discendente del potente sovrano Huayna Capac. Scrisse numerosi resoconti sulla vita, la storia del popolo inca e della conquista da parte degli spagnoli riportandoli nel suo capolavoro: “Commentari reali degli Inca”.
Mi sono avvalso anche di un altro cronista indigeno e della sua opera di oltre 1200 pagine e più di 400 disegni, “Nueva coronica y Buen Gobierno” considerato uno dei libri più originali della storiografia mondiale: Guaman Poma de Ayala, nato da Guàman Mallqui e da Cori Ocllo, ultima figlia del sovrano Tùpac Yupanqui. Egli nella sua opera ricostruisce in modo dettagliato gli aspetti della società peruviana dopo la conquista dell’Impero Inca, contemporaneamente alla storia, alla genealogia dei nativi e ovviamente della loro visione del destino e della cosmologia andina.
- Il romanzo ha un forte intreccio tra storia e thriller. Quali sono state le sue fonti d’ispirazione?
Come non nominare “Il nome della Rosa”, il famoso romanzo di Umberto Eco? Ma anche tanti altri autori hanno attirato, nel tempo, la mia attenzione, come Valerio Massimo Manfredi, Marco Buticchi, Marcello Simoni. Citando gli autori stranieri: Wilbur Smith, Ken Follett e Agatha Christie come regina dei gialli.
- Il monile d’avorio è il filo conduttore tra le epoche. Cosa rappresenta simbolicamente all’interno della storia?
Ho utilizzato come trait d’union un immaginario monile d’avorio con fantasiose scritte non solo per attirare la curiosità del lettore, ma anche per accendere l’attenzione su mondi lontani e apparentemente molto distanti ma che potrebbero essere inglobati in una storia comune e quindi racchiusi in un unico e prezioso monile.
- Anche i due giovani archeologi, Demian e Soledad, hanno un ruolo chiave. Sono ispirati a persone reali o sono completamente di fantasia?
Demian e Soledad sono personaggi completamente di fantasia e in un certo senso incarnano quella che è la mia passione per la storia e per l’archeologia, perché solamente andando a scavare nel passato riusciremo a comprendere meglio il presente.
- C’è un personaggio a cui si sente più legato?
Oltre che ai due gemelli, opterei per il professor Edoardo Montero, il docente che è riuscito ad appassionare i fratelli gemelli Demian e Soledad, che in un certo senso ritengo essere il mio alter ego.
- Qual è stata la parte più difficile da scrivere?
La parte più impegnativa normalmente è la ricerca che precede la narrazione. Lunghi giorni di studio e di approfondimento per cercare di risultare il più rigoroso possibile. Per questo mi risulta sempre necessario consultare numerosi testi, diffidando delle ricerche on line che spesso risultano poco attendibili.
- Ha un metodo particolare di scrittura o si lascia guidare dall’ispirazione?
Dall’ispirazione, dalla storia e dalla fantasia. Sul palinsesto ho un’idea iniziale che poi ovviamente può variare nel corso della scrittura. Io dico sempre che nella scrittura di un romanzo, si entra in una casa con una sola finestra, ma proseguendo nella narrazione se ne aprono sempre tante altre. Così è stato anche nei precedenti romanzi come nella trilogia sugli Inca che cito brevemente: IL CODICE INCA la maledizione di Inti il dio Sole, L’ENIGMA DELLA CROCE INCA la dea luna e l’eclissi fatale e IL SEGRETO DELLA VERGINE INCA il sortilegio di fuoco, di cui IL MONILE D’AVORIO ne è in parte la continuazione.
- Il suo libro mescola avventura, storia e mistero. Sta lavorando a qualcosa di simile per il futuro?
Sì, certamente. Sono sempre alla “ricerca” di nuove avventure da narrare e la storia unita alla fantasia è sempre il motivo conduttore dei miei romanzi. Posso già rivelare che attorno al mese di maggio 2025 uscirà il nuovo libro sempre edito Armando Curcio editore dal titolo IL DECIMO SCRIBA l’eterna dannazione.
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