L’ultima primavera del secolo, Aporema Edizioni, è il sorprendente romanzo d’esordio dell’autore pugliese Domenico Ippolito. Gli abbiamo chiesto di illustrarci il senso e le motivazioni di questo suo interessante primo lavoro.
- Domenico, il caso ha voluto che chi ti sta intervistando oggi abbia lavorato e vissuto nella tua area appena qualche anno prima del periodo in cui è ambientata la vicenda che tu racconti, e dunque comprendi come la prima cosa che mi ha colpito della tua storia sia stata proprio la tua perfetta resa della luce, dei colori, dei profumi, degli odori, dei tipi umani descritti. Hai tratteggiato in maniera vivida e iperrealistica la società e i microconflitti sociali nella tua regione com’erano a fine anni Novanta del secolo scorso: non mi ha per nulla stupito, quindi, il titolo che hai poi adottato per il tuo romanzo. Perché è questo che volevi raccontare, vero, un intero microverso prima ancora che una somma di singole vicende: ho ragione o mi sbaglio?
Non sbagli, perché per raccontare questa storia sono partito proprio dal territorio, dagli elementi forti che lo costituiscono, come quelli che hai citato tu, e ovviamente dal racconto delle persone che lo vivono, che lo calpestano. Ho voluto fotografare, in maniera dinamica, un paesaggio vivido, per alcuni anche feroce, quasi opprimente. Difatti la “primavera” del titolo, che coincide con la guerra del Kosovo del marzo-giugno 1999, durata lo spazio di una stagione, rappresenta anche il tentativo di una rinascita, la ricerca disperata di un mutamento. Il protagonista del mio romanzo, Fabio, un adolescente, vive un conflitto dell’anima, cerca di non venirne schiacciato, segue le sue aspirazioni o almeno ci prova. L’ho immaginato come un combattente che lotta per trovare il suo posto nel mondo.
- Insieme alla società e al paesaggio, un altro attore fondamentale che mi è parso tu abbia ben messo in campo è la munnezza. La spazzatura, sì, a quel che ricordo si chiama così anche da voi. Non a caso, nella tua storia la troviamo tragicamente ovunque: a ogni angolo di strada, a ornare e infestare qualunque attraversamento, dentro e fuori ogni casa abbandonata. Come purtroppo è nella realtà, in quella realtà. Io in questa così marcata evidenza ci ho vista una sorta di potente metafora dell’oppressione malavitosa e omertosa, della caducità di qualunque ideale, della sporcizia morale all’intorno, della bellezza tramontata e sconfitta: dimmi anche qui se ho ragione oppure no.
Sì, nella narrazione ho provato a rendere il territorio mutevole, funzionale ai sentimenti che agitano i personaggi. Gli spazi, nel libro, vengono attraversati come se fossero dei luoghi personali, sono cangianti, prismatici. Ad esempio, quando appaiono gli ambienti reali, come quelli intorno all’aeroporto di Gioia del Colle, oppure le strade della provincia, il paesaggio diventa a volte ostile, aspro, perché chi lo attraversa, in quel momento, si sente così. Dunque la spazzatura di cui dicevi, il degrado, l’asfalto che mangia la terra, la puzza, il rumore assordante dei caccia sulle piste di decollo, sono fermacarte di uno scadimento morale, di un allarme che pulsa fin dentro le vene dei protagonisti.
- Di contro, però, so che tu non ami presentare il tuo bel lavoro soltanto come la denuncia di un dramma sociale, ma anche, e forse soprattutto, come una storia di formazione, di un percorso esistenziale affrontato nella difficoltà e nel travaglio del dover crescere in un posto duro, dove le cose non sono per nulla semplici, dove il bianco non è mai tutto bianco, né il nero tutto nero. Com’è essere giovani dalle tue parti? Lo sei stato anche tu…
È impossibile non mettersi in gioco quando si è giovani, fa parte del percorso di crescita scoprire la propria identità, che va formandosi durante la scoperta stessa. Ai ragazzi vengono costantemente proposti, e imposti, dei modelli di comportamento, non tutti necessariamente ideali, anzi, la trasgressione finisce col diventare anch’essa una norma, viene bollato come strano tutto ciò che si sottrae alle “leggi” della devianza. In un passaggio del libro, Fabio ricorda che rubava, giovanissimo, i fumetti nelle edicole: una cosa che facevano tutti i ragazzini della sua età e che lui smette di fare per noia, poiché «la vera trasgressione,» dice, «sarebbe stata quella di pagarli». L’adolescenza rappresenta un passaggio, una linea d’ombra, e lì in mezzo non è molto semplice separare nettamente il buono dal cattivo, o riconoscere i propri errori. Martina, la ragazza di cui Fabio è innamorato, vive un grande momento di spaesamento e a un certo punto ammette: «Non so più quello che sto facendo. Prima mi domandavo “Questo è giusto?” e sapevo darmi una risposta. Adesso non ci riesco più. Ora mi chiedo: “Questo, cos’è?”»
- E veniamo adesso a un altro imbarazzante comprimario, quello che mi è sembrato l’altro tuo grande, enigmatico convitato di pietra: la guerra. La guerra che non c’è, perché sta dall’altra parte del mare ma riesce comunque a impregnare tutto del suo terribile fattore ansiogeno. Forse perché la Puglia di fine ventesimo secolo era in qualche modo essa stessa una zona di guerra permanente tra le sue stesse contraddizioni, un misterioso campo di battaglia occulto e totale?
Sì, se pensiamo che il capoluogo, Bari, e a cascata la maggior parte dei paesi e delle piccole città della provincia erano luoghi un po’ diversi da ora, contenevano dei posti inaccessibili, malsani, da cui si tenevano alla larga persino gli stessi cittadini, penso ai vicoli della Città Vecchia barese ma anche ad alcune zone dei centri più piccoli. Un film come La Capagira di Alessandro Piva, girato a Bari proprio nel 1999, è diventato un cult perché raffigurava molto bene lo stato opprimente in cui versava parte della città, in balìa di pesci grandi e piccoli della criminalità organizzata, di un senso di insicurezza permanente, quasi patologico. Nel mio libro ho cercato di rappresentare questa minaccia estesa, che si giustappone alla guerra in Kosovo, in corso dall’altra parte dell’Adriatico, in cui la Puglia era coinvolta in prima linea col suo apparato logistico-militare. Ora le città sono mutate, ad esempio il centro storico di Bari è diventato un punto di attrazione per turisti, insieme alle altre bellezze regionali, e nel contempo i baresi e gli abitanti della provincia si sono riappropriati di alcuni luoghi che prima negavano la socialità.
- Visto che sembri avere davvero ben pochi peli sulla lingua, allora te la butto giù lì così, Domenico: in due parole due, qual è il vero grande problema del Sud? Uno, uno solo, se no è troppo facile.
Credo che i problemi, le difficoltà, le storture di un luogo derivino dalla propria storia, che ha una sua evoluzione, e per questo credo anche che esista sempre la possibilità di un cambiamento, perché fenomeni come la criminalità organizzata, o la corruzione, tanto per fare due esempi, non sono castighi divini ma fenomeni umani – lo diceva anche Giovanni Falcone quando parlava di Cosa Nostra – destinati a mutare, a cessare. La rassegnazione, invece, credere che non si possa fare nulla, che tutto debba restare così com’è, immutabile, è pregna di fatalismo e blocca sul nascere ogni tentativo di soluzione, di riscatto. Partirei da lì, a provare a non essere più rassegnati; a pensare che un’auto impantanata possa venir fuori dal fango e tornare sulla strada, se la spingiamo.
- L’ultima primavera del secolo è stata la tua prima fatica letteraria. Ah però. Conosco e mi vengono in mente un po’ di grasse, colorite espressioni nella tua lingua per commentare la piacevolissima sorpresa di una scrittura così ben concepita e matura. Complimenti davvero, e non capita spesso. A questo punto sono ancora più curioso di sapere cos’hai in progetto per il futuro.
Intanto vorrei continuare a occuparmi del mio libro, poiché mi aspetto che il bello debba ancora venire. Quest’anno così problematico per tutti ci ha tolto gli spazi, letteralmente, e ha ridotto le possibilità di incontrarsi, di parlare, di promuovere i propri lavori, anche se grazie al web e ai social si è riusciti, in parte, a sopperire. Il mercato del libro ha però sofferto terribilmente, e dunque spero che il 2021 sia diverso, che si riaprano degli spiragli, anche per i nuovi autori. In quest’ottica, mi piacerebbe lanciare una rivista letteraria: nel web, i magazine online vivono un momento di grande fermento, possono veicolare forme di scrittura diverse, interessanti. Accanto a questo, c’è il progetto di scrivere per il teatro e un secondo romanzo.
- Da parte mia non ho altro, grazie di essere stato con noi, è stato piacevolissimo parlare con te, salutiamo i lettori di Riscontri, magari fallo anche tu, rivolgendoti direttamente a loro se ti va di dir loro qualcosa, e in bocca al lupo per tutto!
Ti ringrazio anch’io per aver dato spazio al mio libro, mando un affettuoso saluto ai lettori della vostra interessante rivista. Viva il lupo!
intervista a cura di Carlo Crescitelli