Un grande imprevisto chiamato vita. Dialogo con Alessandro Azzalin

Conosciamo Alessandro Azzalin, autore di Vite sprecate (Pezzini editore), raccolta di racconti brevi che ha concorso al nostro premio “Un libro in vetrina”.

 

 

Vite sprecate

di Alessandro Azzalin

 

  • Alessandro, i miei complimenti anzitutto: devo infatti confessarti che, tra i molti iscritti al concorso, il tuo lavoro era decisamente tra quelli più singolari e meglio caratterizzati. E allora proprio questo volevo chiederti: considerata l’alta unità e coerenza tematica che lo contraddistingue, com’è nato il progetto Vite sprecate? Da una serie di spunti isolati e sparsi, poi riuniti in seguito, o da una originale, precedente, comune ispirazione?

Vite sprecate è un pezzettino della storia della mia vita, un paio di anni più o meno.

Duemiladiciassette-duemiladiciannove. In fuga da un mostro più grande di me, all’inizio del duemiladiciassette mi sono trasferito a Torino, dove ho trovato subito lavoro in un’officina elettrica (rappresentata nel libro come una macelleria industriale). È in quel periodo che ho iniziato a scrivere, ma senza uno scopo. Scrivevo perché sentivo che era quello che mi andava di fare, se avessi sentito il bisogno di dipingere, avrei dipinto. E scrivevo quello che mi capitava. Ogni tanto mi succedeva qualcosa, ogni tanto no, allora iniziavo un nuovo racconto.

Vite sprecate è il riscontro di un biennio un po’ incasinato. E, come tutto quello che la vita ci riserva è un grande imprevisto, anche la stampa dei miei lavori è stata una sorpresa. Ad agosto duemiladiciannove uno dei miei racconti viene classificato al primo posto in un concorso, il cui premio prevedeva appunto la pubblicazione. Così mi sono messo al lavoro e, in sei mesi circa, è uscito il mio primo e, fino ad ora, unico libro.

  • Un po’ come gli spiazzanti protagonisti delle tue storie, tu sei tuttora ai miei occhi una sorta di oggetto misterioso. Tutto quello infatti che posso sapere o immaginare di te, dal pochissimo che ci hai scritto, è che sei molto giovane, fai un lavoro che c’entra poco o nulla con la letteratura, hai vissuto alcuni anni fuori ma non ci hai detto dove e perché, insomma ti sei fino ad oggi a noi presentato come una specie di cinico outsider senza storia né passato; eppure, sei stato capace di dare alle stampe un volume di notevole maturità, per essere l’opera prima di un autore meno che trentenne. Siamo curiosi, facci capire.

Credo di non avere una risposta. O comunque di non avercene una capace di spiegare direttamente come io sia riuscito a scrivere un libro, a prescindere da come sia venuto.

Quello che posso dire è che nei posti in cui ho lavorato l’infortunio è all’ordine del giorno, posso dirvi che ho lavorato per anni nei giorni di festa: Natale, Pasqua e ultimo dell’anno. Ho lavorato dall’altra parte del mondo. Ho lavorato a trenta gradi sotto zero e a cinquanta sopra. Ho lavorato su robot, forni fusori, impianti radioattivi, esplosivi e puzzolenti come non potreste mai immaginare.

Ho fatto il liceo artistico, questo sì. Poi mi hanno bocciato al terzo anno e sono andato a fare una scuola professionale da elettricista. Così ho cominciato a farmi le ossa nelle fabbriche della nostra città come impiantista industriale; poi ho fatto il manutentore. Dopo ho cominciato ad andare in trasferta, per poi trasferirmi del tutto per qualche anno. Non continuo perché ho cambiato così tanti lavori che qualcuno non me lo ricordo neanche più.

Adesso lavoro per un’azienda del Verbano, dove si costruiscono robot. Sì, robot! Non ci credevo neanche io quando sono entrato per la prima volta. Spediscono i loro macchinari in tutto il mondo e, insieme ai macchinari, spediscono anche noi. Quindi ogni tanto svolazzo qua e là, imparando e vivendo nuove città e nuovi posti.

La vita è la mia scuola. Quello che scrivo arriva da lì.

  • Parliamo della tua formazione di lettore, dei tuoi riferimenti autoriali: in Vite sprecate io ci ho visto un bel po’ di Philip K. Dick (nelle tue varie e compiaciute boutades fantascientifiche), ma soprattutto certa scuola novellistica della seconda metà del secolo scorso (Dino Buzzati, Tommaso Landolfi) e umoristica contemporanea (Stefano Benni). È così, ho ragione? Conosci le pagine di questi signori, ti sei a loro più o meno volontariamente ispirato? O avevi in mente altri modelli?

Consapevole di non fare una grande figura da letterato, ti confesserò che, oltre ad aver usato termini ed espressioni che non conosco (boutades, scuola novellistica), purtroppo non conosco nessuno degli autori citati, a parte Benni, con Bar Sport Duemila. Fu uno dei pochi libri che mi fecero leggere a scuola.

Come lettore mi definisco pigro. Non ho mai letto troppo volentieri. Un giorno poi, ho trovato un libro di Bukowski in una bancarella, una raccolta di racconti, che si intitolava “compagno di sbronze”. Quello è stato il mio svezzamento alla letteratura.

Leggere è diventato bellissimo, così, da un giorno all’altro. E la mia pigrizia poteva continuare a possedere la mia parte di lettore, tanto avevo trovato una scappatoia: il racconto breve.

Adesso, quando capito davanti a una bancarella di libri usati, cerco sempre le raccolte di racconti e ogni volta è una sorpresa, da Primo Levi a Kafka, passando per Allan Poe, Stephen King e Italo Calvino. Mi stupisco tutte le volte, è incredibile scoprire quanti autori abbiano fatto della narrativa breve. È questo che leggo, senza fare distinzione tra autori o generi.

  • Abbiamo parlato finora soltanto di come è nato Vite sprecate, e non di come invece crescerà. Cosa bolle in pentola?

Da quando ho iniziato a scrivere non ho mai smesso. Oggi ho abbastanza materiale da comporre un’altra raccolta, e mi piacerebbe farlo.

Magari qualche premio, magari qualche proposta, io aspetto e sono ottimista.

  • Concludiamo come facciamo sempre, e cioè con un messaggio espressamente rivolto ai lettori di “Riscontri”: stabilisci un ponte con loro, spiega cos’è per te la scrittura, cos’hai loro da dire e perché leggerti e seguirti.

Forse le mie storie non sono per tutti, perché non è per tutti che le scrivo. Non sono per mia nonna per esempio (che non le capisce proprio, oltre al fatto che non le piacciono), non sono per chi legge per rilassarsi. Non sono per i deboli e gli schizzinosi.

Io consiglio di leggermi se si cerca qualcosa di nuovo e di rudimentale, perché è questo che faccio. Cioè, è quello che faccio nella vita in generale. Nel lavoro, nella cucina e nelle mie passioni. Sono uno sperimentatore, sono curioso, sempre. E mi piacerebbe portare il lettore alla mia condizione offrendogli qualcosa che non aveva mai visto prima.

Senza leggermi troppo però, in modo che possa mantenere questo equilibrio in cui la scrittura occupa una parte ancora piccola, ma molto significativa, della mia quotidianità.

intervista a cura di Carlo Crescitelli

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