di Salvatore La Vecchia
È ancora possibile maturare un giudizio estetico critico dopo che sembra essersi dissolto nel mare magnum dell’arte contemporanea qualsiasi canone della tradizione classica?
Il sentiero del bello, che ha avuto inizio nell’antica Grecia e ha attraversato il Rinascimento, il Romanticismo, l’intera storia dell’arte fino alle soglie delle avanguardie novecentesche, sembra essersi interrotto in una proliferazione incontrollata di forme e di generi che vanno dalla pittura, scultura, architettura alle installazioni, performance, coreografie, utilizzando video, radiografie, endoscopie e mescolando colori, marmi e pietre con escrementi, sperma, peli, unghie, per rappresentare languide parvenze poetiche ed esporre corpi deturpati da gesti violenti, ferimenti e perfino suicidi. E tutto si pretende sia arte. E la differenza tra un prodotto e l’altro non sembra più essere determinata dai valori estetici, ma da quelli del mercato.
Ma l’arte contemporanea è per davvero solo uno sterminato stercorario? Tutta da buttare? E il suo valore è solo quello determinato dalla speculazione finanziaria?
Un urlo disperato e liberatorio insieme ci fa sperare che è ancora possibile definire uno spazio in cui seminare quella skepsis, quel dubbio, da cui possa germinare un rinnovato senso critico che ci permetta di discernere il grano dal loglio e ci consenta di scegliere autonomamente, senza l’ausilio di mediatori tanto artisticamente improvvisati quanto economicamente interessati. Uno spazio in cui investire un nuovo capitale, il “capitale relazionale”, che può ancora trasvalutare i valori finanziari in valori etici ed estetici e può quindi permetterci di sviluppare insieme un nuovo senso del gusto, attraverso la riscoperta di quel piacere, tanto più pieno quanto più condiviso, che si prova esercitando quei “sensi fini” e quel “sentimento delicato” che il puro, intramontabile spirito dell’arte continua a ispirarci.
L’articolo completo è disponibile sul numero 1 (2019) di “Riscontri”
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Salvatore La Vecchia, nato a Bonito (AV), vive a Chiavenna (SO). Dirigente Scolastico, per oltre venti anni ha insegnato Storia e Filosofia nei licei. La sua passione per l’arte lo induceva a imprimere ai suoi corsi una curvatura estetica nella convinzione che tra arte e filosofia vi sia una profonda compenetrazione; ora continua a coltivarla curando mostre e scrivendo cataloghi per artisti contemporanei emergenti.
Studioso di dialetto, ha pubblicato Bonidizio – Dizionario bonitese – Alla ricerca di una comune identità, Delta 3, 1999: «Opera non comune in queste imprese» secondo il filosofo e linguista Tullio De Mauro, mentre per il lessicografo Manlio Cortellazzo «viene ad accrescere di molto le nostre conoscenze dell’avellinese». È autore di una trilogia di commedie dialettali: La Potea 2003 (Premio Virgilio Barbieri 2004), La Massaria e La Chiazza. Nel 2010 con Mephite ha pubblicato La giostra del Principe – Il dramma di Carlo Gesualdo dal «respiro teatrale ampio, polifonico» – secondo il regista e scrittore Ruggero Cappuccio – «che racconta atmosfere storiche e interiori, allestendo un sabba di fantasmi che tornano a reclamare i loro diritti».
Di prossima pubblicazione presso Il Terebinto Edizioni il suo ultimo lavoro: Bonum iter, Bonito! – Romanzo antropologico.